Si è evidenziata un aspetto molto importante nelle varie celebrazioni eucaristiche nel tempo della pandemia: la “comunicazione” nella liturgia. Si voglia o no in ogni liturgia noi comunichiamo, prima che on le parole, con tutto ciò che siamo: anche con il nostro tone di voce, i nostri sguardi, i nostri gesti.
I contenuti che ascoltiamo, a volte, non incidono perché chi li propone non li esprime adeguatamente: vi è una discrepanza tra la parola che pronuncia e la sua persona.
Tutto questo lo possiamo cogliere anche nella liturgia. Il linguaggio non può mai essere svincolato da colui che parla, e colui che celebra non lo fa in funzione di sé, ma di un “Altro”, a servizio di una Parola che umilmente deve annunciare, di un mistero che deve ripresentare e manifestare.
Certo non tutti hanno il dono di una parola brillante e comunicativa, ma la verità di ciò in cui si crede e si annuncia, traspare anche da parole semplici e appassionate che narrano non solo concetti, ma un’ esperienza autentica di incontro con il Signore.
Infatti tu parli di una sensazione di “non vero”, cioè di parole che non nascono dall’esperienza, che non hanno toccato la vita.
Ci può essere una voce senza Parola, senza che la comunicazione tocchi chi ascolta.
Il celebrante, ma la stessa assemblea, con tutta la sua persona nell’atto liturgico e nell’omelia, comunica o no il mistero che celebra, Colui in cui crede.
Bisogna essere consapevoli, che nella liturgia è “segno” di Cristo quando predica la Parola, quando spezza il pane.
C’è un modo di porsi, di “vedere oltre” per far incontrare Colui che è il vero protagonista della celebrazione, Cristo unico e sommo sacerdote.
Quante volte purtroppo si assiste a liturgie nelle quali non emerge più il mistero e non si annuncia la Parola di un Altro, ma tutto è autoreferenziale a colui che lo presiede. Il protagonismo può essere una grande tentazione per chi ha il compito di reggere un’azione come quella liturgica, facilmente esposta al rischio di trasformarsi in «spettacolo».
Ciò avviene quando la propria spiritualità e i doni personali vengono enfatizzati ed esposti: in tal caso i gesti liturgici non raccontano più l’azione di Dio, ma diventano azione di chi li compie. È per questo che Gregorio Magno sconsigliava a chi presiedeva l’Eucaristia, di dare manifestazione della propria devozione personale, in modo che il presbitero apparisse solo quale servo di Cristo e della chiesa.
Ogni gesto liturgico costituisce un vero linguaggio: alzarsi, sedersi, inchinarsi; occorre far emergere la bellezza dei gesti che si compiono perché i fedeli possano gustare quanto è buono il Signore…
Quando non c’è più l’attenzione, la cura affinché emerga quella bellezza che è sempre eloquenza efficace del gesto e della parola, allora appaiono “l’abitudine del celebrare”, il “recitare” un testo al quale non si aderisce, la cantilena, un “ripetere” azioni senza essere soggetto capace di dar loro forza e comunicazione.
Non dovremmo mai dimenticarci, che Il sacerdote che presiede insegna, e per questo tutto il suo corpo, la sua mente e il suo cuore devono essere impegnati in un servizio, un vero servizio della comunità, che richiede uno stile, un’eloquenza che resti sempre al servizio della comunità, non al proprio servizio.
La celebrazione richiede serietà, richiede che chi presiede sappia mostrare l’autorevolezza di ciò che dice e fa, anche in situazioni di assemblee poco numerose o di celebrazioni feriali, in diretta social….
Solo allora la celebrazione diventa luogo di evangelizzazione, scuola di fede e di incontro con la salvezza, dono della misericordia di Dio, spazio che conduce a Cristo.
Ogni sacerdote, tecnologico o no, ha ricevuto un dono e una responsabilità grandi: anch’essi sono uomini fragili che dobbiamo sostenere con la preghiera e un’amicizia vera, velata con quella carità che sa coprire e scusare le loro debolezze e mancanze.
E allora….BUONA LITURGIA!
I contenuti che ascoltiamo, a volte, non incidono perché chi li propone non li esprime adeguatamente: vi è una discrepanza tra la parola che pronuncia e la sua persona.
Tutto questo lo possiamo cogliere anche nella liturgia. Il linguaggio non può mai essere svincolato da colui che parla, e colui che celebra non lo fa in funzione di sé, ma di un “Altro”, a servizio di una Parola che umilmente deve annunciare, di un mistero che deve ripresentare e manifestare.
Certo non tutti hanno il dono di una parola brillante e comunicativa, ma la verità di ciò in cui si crede e si annuncia, traspare anche da parole semplici e appassionate che narrano non solo concetti, ma un’ esperienza autentica di incontro con il Signore.
Infatti tu parli di una sensazione di “non vero”, cioè di parole che non nascono dall’esperienza, che non hanno toccato la vita.
Ci può essere una voce senza Parola, senza che la comunicazione tocchi chi ascolta.
Il celebrante, ma la stessa assemblea, con tutta la sua persona nell’atto liturgico e nell’omelia, comunica o no il mistero che celebra, Colui in cui crede.
Bisogna essere consapevoli, che nella liturgia è “segno” di Cristo quando predica la Parola, quando spezza il pane.
C’è un modo di porsi, di “vedere oltre” per far incontrare Colui che è il vero protagonista della celebrazione, Cristo unico e sommo sacerdote.
Quante volte purtroppo si assiste a liturgie nelle quali non emerge più il mistero e non si annuncia la Parola di un Altro, ma tutto è autoreferenziale a colui che lo presiede. Il protagonismo può essere una grande tentazione per chi ha il compito di reggere un’azione come quella liturgica, facilmente esposta al rischio di trasformarsi in «spettacolo».
Ciò avviene quando la propria spiritualità e i doni personali vengono enfatizzati ed esposti: in tal caso i gesti liturgici non raccontano più l’azione di Dio, ma diventano azione di chi li compie. È per questo che Gregorio Magno sconsigliava a chi presiedeva l’Eucaristia, di dare manifestazione della propria devozione personale, in modo che il presbitero apparisse solo quale servo di Cristo e della chiesa.
Ogni gesto liturgico costituisce un vero linguaggio: alzarsi, sedersi, inchinarsi; occorre far emergere la bellezza dei gesti che si compiono perché i fedeli possano gustare quanto è buono il Signore…
Quando non c’è più l’attenzione, la cura affinché emerga quella bellezza che è sempre eloquenza efficace del gesto e della parola, allora appaiono “l’abitudine del celebrare”, il “recitare” un testo al quale non si aderisce, la cantilena, un “ripetere” azioni senza essere soggetto capace di dar loro forza e comunicazione.
Non dovremmo mai dimenticarci, che Il sacerdote che presiede insegna, e per questo tutto il suo corpo, la sua mente e il suo cuore devono essere impegnati in un servizio, un vero servizio della comunità, che richiede uno stile, un’eloquenza che resti sempre al servizio della comunità, non al proprio servizio.
La celebrazione richiede serietà, richiede che chi presiede sappia mostrare l’autorevolezza di ciò che dice e fa, anche in situazioni di assemblee poco numerose o di celebrazioni feriali, in diretta social….
Solo allora la celebrazione diventa luogo di evangelizzazione, scuola di fede e di incontro con la salvezza, dono della misericordia di Dio, spazio che conduce a Cristo.
Ogni sacerdote, tecnologico o no, ha ricevuto un dono e una responsabilità grandi: anch’essi sono uomini fragili che dobbiamo sostenere con la preghiera e un’amicizia vera, velata con quella carità che sa coprire e scusare le loro debolezze e mancanze.
E allora….BUONA LITURGIA!