Gesù torna a casa a Nazaret, nel paese dove è cresciuto, accompagnato dalla fama di maestro autorevole che si è guadagnata attraverso tutta la Galilea.
Entra nella sinagoga e partecipa alla liturgia del sabato. Legge e commenta un passo del profeta Isaia che annuncia la liberazione definitiva di coloro che erano stati deportati e che attualmente si trovavano in una condizione di povertà e di oppressione. La salvezza viene presentata come un rovesciamento della situazione presente.
Gesù applica a sé questo passo, ne fa anzi una specie di manifesto programmatico della propria missione. Afferma chiaramente: la salvezza promessa da Dio è presente e operante qui, ora, nella mia persona.
Nell’episodio possiamo rilevare due cose essenziali: il messaggio di Gesù è una lieta notizia perché un messaggio di liberazione. Questa liberazione è in atto oggi.
“Messaggio di liberazione”, è diventato una formula fin troppo scontata, perfino abusata, nel nostro mondo contemporaneo. Tutti parlano di liberazione: tutti tengono in tasca un progetto di liberazione. Occorre perciò, sottolineare la specificità della liberazione proposta di Gesù. La liberazione proclamata da Gesù è una liberazione totale. Riguarda l’uomo in tutte le sue dimensioni. Non ci si può limitare a liberare una parte dell’uomo. È tutto l’uomo che deve essere liberato. Altrimenti non si può parlare di liberazione. Si allarga lo spazio della sua prigione, ma non si può certo dire che l’uomo sia libero. La liberazione dell’uomo non è totale se si limita a risolvere il problema del “pane”, del contingente, madre scura o addirittura neutralizza la sua fame di ideali, di giustizia, di significato di ragioni per vivere. Una certa società permissiva gioca proprio su questo equivoco di fondo: dare all’individuo l’illusione, e talvolta lo stordimento, della libertà, lasciandolo scorrazzare a piacimento in certi spazi ben precisi (quello del piacere, del divertimento, delle scelte consumistiche) per poi condizionarlo e manovrarlo e addirittura dominarlo in altri settori essenziali, dove veramente si gioca la sua possibilità di essere uomo. Sì ha la liberazione totale soltanto quando uno diventa libero di essere ciò che deve essere. Ossia, è una liberazione che si colloca prima che nella linea del fare, nella linea dell’essere. E l’uomo ha la possibilità di realizzarsi secondo la verità della propria persona, secondo la propria volontà, secondo la propria vocazione.
Altro aspetto caratterizzante. La liberazione annunciata da Gesù comincia da noi.
Non è possibile liberare gli altri se i liberatori non sono interiormente totalmente liberi. Liberi dalla schiavitù delle ideologie, dalle mode, dei vari idoli, dall’istinto di dominare possedere. Liberi, soprattutto, dagli orizzonti soffocanti dell’egoismo. Consapevoli che la prima sovrastruttura da abbattere è quell’io accaparratore e sopraffattore.
Qualcuno sostiene che il primato è quello della liberazione di noi stessi. Bisogna precisare: liberazione da noi stessi. In questa prospettiva, occorre soprattutto avere il gusto della libertà, sentire la libertà come una passione, un gusto, oserei dire una malattia inguaribile. Qualcosa che non è mai definitivo, ma va conquistato e difeso pagato giorno per giorno. La libertà non ci viene regalata dagli altri. Ci viene donata da Gesù. A patto di riconoscerci anche noi poveri, prigionieri, ciechi, oppressi dalle catene che sovente ci costruiamo con le nostre mani e a cui finiamo per abituarci. Ecco dunque il paradosso del progetto di liberazione cristiana: si tratta di una libertà donata e, nello stesso tempo, da conquistare interiormente. Una libertà che ci viene offerta gratuitamente, come aspetto fondamentale della salvezza, eppure questa libertà che non dipende da noi è una libertà che solo noi possiamo perdere. Soprattutto quando ne perdiamo il gusto. Oppure la utilizziamo solo in parte. Un cristiano che non è tutto libero meglio liberato, non è un individuo libero a metà. È uno che ha perso la libertà. Buona Domenica